Alberto

Pensate ad una piazza, come tante in Italia, con la sua storia calpestata, i suoi palazzi d’epoca, malandati o mal restaurati,  quattro zolle di terreno, un tempo rigogliose aiuole, come raccontano gli anziani del quartiere. E ancora: un paio di panchine imbrattate, sei tronchi, una volta, orgogliose palme, divorate, oggi, come dichiara il Comune, dall’opera di voraci parassiti. Insomma, uno spazio da attraversare senza stupore, come impone il balbettio della vita odierna. Senza badare neppure a quella lapide, posta la centro del viavai, con nomi e date, in ricordo di un evento, troppo lontano per trovare posto nella memoria corta dell’affanno. Eppure, c’è un uomo che conosce passato e presente di questo slargo. Ne fa parte come i palazzi, le palme, le panchine. Ha vissuto i cambiamenti, respirato il distratto vagare delle persone. Il suo nome è Alberto, ha 68 anni, portati con leggerezza, quella concreta del dopoguerra. Da quando avevo i calzoni corti, lui era lì, in un angolo della piazza. Nella sua edicola, ho scoperto i fumetti, il profumo della stampa, l’importanza delle parole. Ogni volta, lo trovavo a leggere un libro. I suoi autori preferiti erano Flaiano, Sciascia, Vittorini, Buzzati. Con un lapis segnava le frasi che lo avevano colpito. Memorizzava quei fuochi d’artificio letterari e li donava: affezionati clienti o compratori occasionali non faceva differenza. Trovava sempre il modo di infilare quei pensieri  nel discorso, anche il più sintetico. Per carità, mai se ne impadroniva. Li scoccava come frecce e poi svelava la paternità.
«Alberto, il solito. Scopriamo le ingiustizie di oggi».
«Caro Ragioniere, l’italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia»
Dopo aver colto la meraviglia negli occhi dell’avventore, si affrettava a completare l’opera dicendo: «Come ha scritto Ennio Flaiano».  
In breve, dispensava pillole di saggezza, consigli di lettura.
Alberto sorrideva sempre. Non una svogliata cortesia, ma un autentico racconto di gioia.
Gioia di rivederti, ogni giorno. In due occasioni, però, ho visto il suo viso annuvolarsi e gli occhi diventare lucidi. Nell’avamposto di pensieri e parole, alle sue spalle, aveva il ritratto di una giovane.
Un paio di anni fa, m’incantai a guardare quel viso dolce, incorniciato da lunghi riccioli castani.
«È mia moglie» rispose alla silenziosa domanda.
«Si chiamava Angela».
Mi raccontò del loro sentimento, del matrimonio riparatore. Di quel giorno, il 26 febbraio 1972.  Mentre Nicola di Bari vinceva la 22° edizione del Festival di Sanremo con la canzone I giorni dell’arcobaleno,  il suo amore, la giovane dai riccioli castani, partorì il loro figlio e disse addio al mondo. “Complicanze post parto” fu il verdetto. Gli anni a seguire non furono certo d’arcobaleno. Crescere un figlio non è passeggiata a cuor leggero, soprattutto quando a camminare sei solo. Furono anni di sacrifici, lavori malpagati, notti insonni, pannolini e ninnenanne. Poi, l’occasione dell’edicola, prima dipendente, poi padrone. Era riuscito persino a comprare un appartamento, per carità, nulla di pretenzioso, due stanze in periferia. Al figlio, stessi occhi della madre, nulla era mancato.
Due settimane fa, per la seconda volta, vidi spegnersi il sorriso di Alberto.  È vero, il viso era coperto da una mascherina, ma il suo sguardo non mentiva.
«Albè, tutto bene?».
«Che importanza ha essere vissuti per tanti anni, se un giorno solo ci fa capire che non ci resta niente» fu la risposta. Mi aspettavo le generalità dell’autore, invece nulla. Tirò su con il naso e parlò di quel figlio, ormai grande, sposato, padre di famiglia, in cerca della svolta. Aveva comprato una villetta a tre piani, fuori città, da trasformare in bed&breakfast. Per l’affare, aveva chiesto e ottenuto i risparmi paterni e la vendita delle due stanze in periferia. «Che fai? Al sangue del tuo sangue, non lo aiuti».
«Papà, non andrai sotto un ponte. Vieni a stare da noi, nella villetta. C’è spazio per tutti».
Già, spazio per tutti, fino all’arrivo del virus, all’isolamento, alla forzata chiusura del bed&breakfast. Nessun cliente, nessun guadagno, troppe spese.
«Perché non vendi l’edicola? Finalmente ti riposi. È un lavoro che non rende più».
Ma l’edicola è la vita di Alberto. È la sua trincea, la culla del suo sorriso. È l’arcobaleno.
Ieri, sono passato in quella piazza, come tante in Italia, con i suoi palazzi, le aiuole invecchiate, le panchine imbrattate, con le palme malate, con la sua lapide dimenticata. Una piazza come tante, con la sua edicola chiusa e il cartello vendesi sulla saracinesca.

9 pensieri riguardo “Alberto”

  1. Che emozione ritrovare la calda voce che mi ha donato preziosi consigli sulla scrittura. Ricordo sempre con piacere e gratitudine il bellissimo seminario sulla creazione del personaggio. Davvero indimenticabile. Le dico grazie per la storia di oggi e per la disponibilità di allora.

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